martedì 14 aprile 2009
Post scritto con la parte bassa del cervello(14:14:00)
il mio ufficio è bianco, asettico.
le pareti sono bianche, la scrivania bianca. le porte sono trasparenti. le finestre danno su un prato verde, che pare incalpestato da secoli. un orologio sospeso scandisce il tempo con scatti schizoidi. se mi capita di lavorare fino a tardi, scende un silenzio irreale, e ciò che rimane del rumore è l'humming sordo dei pc ancora accesi.
durante il giorno, se mi concentro, penso dopo un minuto di aver trovato un pattern tra i vari click dei mouse, uno schema complicatissimo, come un tempo dispari che gli altri eseguono in sincronia perfetta. ma la sensazione svanisce al primo errore. chissà di chi.
è a quel punto che dei tacchi sul finto parquet (bianco) spezzano la sinfonia stravinskiana.
gli altri s'interrompono. la lancetta dell'orologio esita.
e appare lei. la mia segretaria.
è perfetta, in ogni dettaglio, come una BMW in esposizione al concessionario.
solca lo spazio con un'espressione che non è ne' allegra ne' triste, novella gioconda che fa due passi fuori dalla cornice.
forse soffre. il dolore indefinibile di chi ha raggiunto la perfezione e sa che la perfezione non può essere superata.
al limite eguagliata ogni giorno.
le sue vesti l'avvolgono. il panneggio della dama con l'ermellino al confronto è volgare.
se sono al telefono, mi prende alla sprovvista con un sapiente movimento delle mani, ed aggirandomi, confondendomi, mentre guardo dalla parte opposta posa davanti a me la busta paga, i buoni pasto, una pubblicità della Oracle, il CUD, la nota spese rifiutata o la mia lettera di licenziamento.
è il karate della corrispondenza (sono già al tappeto dopo tre secondi di cronometro).
a quel punto mi fissa e forse fa un sorriso o forse è solo la mia immaginazione o forse pronuncia due sillabe di una lingua aliena. poi si gira su sè stessa. la scena è al rallentatore, o magari sono semplicemente io che non ci sto capendo più un cazzo, la telecamera arretra, e lei scompare dietro l'angolo, in una nuvola d'aria che ritorna al suo posto, presa in contropiede anch'essa.
il ticchettio dei tasti ricomincia.
mi accorgo che la mia bocca è aperta e forse sembro un alce che fissa i fari di una macchina.
dico a me stesso: "resisti".
e, per un attimo, penso di aver visto Dio.
il mio ufficio è bianco, asettico.
le pareti sono bianche, la scrivania bianca. le porte sono trasparenti. le finestre danno su un prato verde, che pare incalpestato da secoli. un orologio sospeso scandisce il tempo con scatti schizoidi. se mi capita di lavorare fino a tardi, scende un silenzio irreale, e ciò che rimane del rumore è l'humming sordo dei pc ancora accesi.
durante il giorno, se mi concentro, penso dopo un minuto di aver trovato un pattern tra i vari click dei mouse, uno schema complicatissimo, come un tempo dispari che gli altri eseguono in sincronia perfetta. ma la sensazione svanisce al primo errore. chissà di chi.
è a quel punto che dei tacchi sul finto parquet (bianco) spezzano la sinfonia stravinskiana.
gli altri s'interrompono. la lancetta dell'orologio esita.
e appare lei. la mia segretaria.
è perfetta, in ogni dettaglio, come una BMW in esposizione al concessionario.
solca lo spazio con un'espressione che non è ne' allegra ne' triste, novella gioconda che fa due passi fuori dalla cornice.
forse soffre. il dolore indefinibile di chi ha raggiunto la perfezione e sa che la perfezione non può essere superata.
al limite eguagliata ogni giorno.
le sue vesti l'avvolgono. il panneggio della dama con l'ermellino al confronto è volgare.
se sono al telefono, mi prende alla sprovvista con un sapiente movimento delle mani, ed aggirandomi, confondendomi, mentre guardo dalla parte opposta posa davanti a me la busta paga, i buoni pasto, una pubblicità della Oracle, il CUD, la nota spese rifiutata o la mia lettera di licenziamento.
è il karate della corrispondenza (sono già al tappeto dopo tre secondi di cronometro).
a quel punto mi fissa e forse fa un sorriso o forse è solo la mia immaginazione o forse pronuncia due sillabe di una lingua aliena. poi si gira su sè stessa. la scena è al rallentatore, o magari sono semplicemente io che non ci sto capendo più un cazzo, la telecamera arretra, e lei scompare dietro l'angolo, in una nuvola d'aria che ritorna al suo posto, presa in contropiede anch'essa.
il ticchettio dei tasti ricomincia.
mi accorgo che la mia bocca è aperta e forse sembro un alce che fissa i fari di una macchina.
dico a me stesso: "resisti".
e, per un attimo, penso di aver visto Dio.
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